Oggi cronaca di una piacevolissima passeggiata nel mezzo della alta valle, che consiglio vivamente, proprio sul monte che la divide in due, con l’Arda di qua e il Lubiana dillà.
Ovvero l’anello A8 – anello di Rusteghini della fidata guida ai sentieri di Morfasso (Val d'Arda Trekking), a cura di Sergio Efosi e Fausto Ferrari.
Lasciata l’auto nei pressi del bar K2, dopo una piacevole chiacchierata con la gentilissima ospite, ed una buona bibita fresca (ancor migliore se gustata sotto alla caratteristica pergola carica di grappoli d’uva), inizio la salita attraverso le stradine ordinate di Rusteghini, alla ricerca di questo leggendario villaggio di cui tanto ho sentito parlare e che tanto desideravo vedere.
Perché vergognosamente ammetto che le mie poche passeggiate sono sempre state rivolte verso le vette, alla ricerca di panorami e frescura. Mi accorgo ora di quanto mi sono sbagliato a sottovalutare questi altri sentieri: ogni tracciato ha il suo perché e merita una visita.
Di questo, che esplora una parte a me ignota della valle, proprio di fronte alle finestre di casa, mi colpiscono subito gli scorci verso i monti con angoli diversi da quelli a cui sono abituato, con il Carameto e ai suoi piedi il piano del mulino e Casali, sempre talmente nascosto che solo in rari punti si vede bene, come qui.
Proseguo su una strada con fondo sempre perfetto, di quelli che ci si aspetta camminando per le antiche vie dei boschi di montagna, lungo un itinerario chiaramente individuato con segnavia e frecce.
Dopo una prima breve salita, si procede lungo un bel tratto in piano, rilassante, tra boschi e prati ancora ben curati, lungo una strada antica fiancheggiata da quello che un tempo era un muro in sasso e che oggi a malapena si distingue, tra pezzi crollati chissà quando e radici degli alberi che hanno oramai sconnesso tutto. Solo in alcuni brevi tratti si intuisce ancora il fondo stradale in selciato ben commesso, ma altrove è oramai perduto per sempre.
Poco dopo aver incrociato una casa abbandonata molto pittoresca, inizio a preoccuparmi di non riuscire a trovare la mia meta, consapevole delle scarse doti di osservatore, e immaginando la mancanza di segnaletica turistica.
Attraversato un passaggio di accesso, mi trovo in un grande prato in pendio circondato da giovani querce. Tra gli alberi e arbusti si riconosce bene il muro continuo che lo cingeva da ogni lato, e addossate a questo le prime casette, alcune addirittura con ancora il tetto in pietra.
Ma il meglio lo si vede in cima al pendio, sul lato opposto rispetto alla strada.
Seguo una debole traccia nell'erba alta, di chi evidentemente mi ha preceduto, e trovo la parte più consistente del villaggio, che leggo sulla guida essere anche chiamato castello.
Si tratta di un intrico di casette oramai diroccate, una quindicina in tutto, alte quanto una persona, l'una sull'altra, come sono i veri paesi qui: numerose costruzioni addossate, in pietra, intorno a un dedalo di passaggi tortuosi, con il suo bastione tondo e la roccaforte. Costruite da un signore, chiamato appunto Abdèl, quando i suoi animali gli lasciavano un po' di tempo libero.
Senza tetto, molte di queste costruzioni sono oramai crollate o pericolosamente deformate. Nelle meglio conservate si riconosce una porticina d'ingresso, qualche finestra, una panchetta bassa per sedersi. Tanti sono i muri stori. Forse qualcuno ha ceduto ma altri sembrano così di proposito.
E murature a secco perfettamente costruite, con pietre regolari e squadrate, fatte evidentemente per durare nel tempo. Non è una improvvisata. Meriterebbe davvero un approfondimento. Ci vedrei bene una tesi di laurea di qualche giovane aspirante architetto, che magari almeno potrebbe documentarlo bene e lasciarne traccia ai posteri, quando non sarà rimasto altro che un cumulo di sassi.
La storia del villaggio per i gatti comunque non mi convince troppo: secondo me c'è dietro una follia superiore.
Forse una storiella che il pastore Bedelli si sarà inventato per rendere la sua follia più socialmente accettabile. Oppure era un genio vero.
È azzardato fare paragoni, ma mi ha ricordato in certi aspetti il parco di Bomarzo, ovviamente con le debite proporzioni. Una follia di un folle genio. Solo che quella è meta di visite da tutto il mondo, questa giace abbandonata e appare in attesa di un misero destino.
Con tanto entusiasmo e tristezza, proseguo lungo la strada, ora affiancata da aceri nodosi che ho imparato a conoscere come vecchi filari di siepi di recinzione, e dietro una boscaglia indifferente e fittissima in vecchi prati ora abbandonati e invasi dalle sterpaglie, che si illudono di essere già bosco.
Passate le belle case di Ghirone finisce la pacchia del sentiero in piano: si inizia a salire.
Raggiunto il quadrivio della Giastrella, si incrociano i sentieri A1eA3; da qui parte la discesa per il ritorno. Che avviene su una strada bella larga e comoda, con fondo in ghiaia da poco risistemato, proseguendo lungamente tutta sul crinale. Qui a tratti il bosco lascia spazio a qualche prato, con bei panorami sulla valle su entrambi i versanti.
E dove è ancora più evidente nei boschi questo anticipo di colori autunnali, a causa della forte siccità del periodo.
Ultima nota positiva e bellissima del percorso: il telefono non prende, se non in cima!
Condizioni del percorso: ottimo, uno dei migliori percorsi sinora.
Persone incontrate: meravigliosamente (o tristemente) nessuno, per quello che può valere in un venerdì mattina di mezz’agosto. In compenso ho incrociato due caprioli, e uno scoiattolo venuto a controllare se avevo qualcosa per lui.
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